Loading....

Situazione Covid a Busto Arsizio, l’intervista al Dott. Franzetti

Stiamo vivendo sicuramente un periodo difficile per tutti, ma, siamo convinti, lo è ancora di più per chi lavora da mesi a stretto contatto con i pazienti Covid-19 e in generale negli ambienti ospedalieri. Abbiamo avuto la fortuna di esporre alcuni nostri dubbi al Primario di Malattie Infettive dell’Ospedale di Busto Arsizio, Dott. Fabio Franzetti. Ringraziandolo della disponibilità e del tempo – non scontato – che ha voluto dedicarci, speriamo di rendere un po’ più chiara la situazione del nostro territorio. 

(Ricordiamo che la situazione Covid-19 è in costante evoluzione, l’intervista risale al 12 gennaio 2021)

 

Buongiorno Dott. Franzetti. Nel ringraziarla della sua disponibilità vorremmo partire con una domanda forse complicata. Come va?

La crescita vertiginosa dei casi della seconda ondata della pandemia che ha investito la nostra provincia nei mesi scorsi si è attenuata, ma il flusso dei malati in Pronto Soccorso non si arresta e da settimane ormai la nostra provincia è ai primi posti nella classifica del numero di casi per abitanti in Lombardia: cumulativamente oltre 60 casi per 1000 abitanti a fine anno 2020, secondo i dati del Ministero della Salute, con un totale di più di 50.000 casi accertati.

 

In che stato versano i reparti Covid a Busto Arsizio al momento? E le terapie intensive? 

Nelle ultime settimane dell’anno l’Ospedale di Busto Arsizio ha cercato di contemperare le esigenze di garantire i posti-letto per i pazienti COVID-19 da ricoverare, con quelle di tutti gli altri malati, aumentando la disponibilità di ricovero per i pazienti non-COVID. Trovare un equilibrio tra esigenze apparentemente contrastanti, stante la riduzione dei posti-letto operata negli ultimi anni, non è facile. Da metà novembre a metà gennaio la disponibilità di posti-letto per pazienti COVID del nostro ospedale è variata dai 100 a 185 (di cui 10-18 in Terapia Intensiva) a seconda dei flussi in arrivo in PS.

 

In base alla sua esperienza, è cambiato qualcosa dalla prima alla seconda ondata?

Nell’esperienza che ci siamo fatti in queste settimane non possiamo dire di aver osservato un’evoluzione nel comportamento dell’infezione. I pazienti che vengono ricoverati non sono più gravi rispetto a quelli di marzo/aprile o di novembre, perché è aumentata la quota dei pazienti sintomatici che restano al domicilio, assistiti dalla medicina del territorio, che si è riorganizzata bene. E’ rarissimo vedere ricoverati pazienti con disturbi lievi e bassi flussi di ossigeno, che vengono dimessi dopo pochi giorni con tampone negativo. Anche la rete delle strutture di ricovero a cui trasferire pazienti ancora in ossigeno e tampone molecolare ancora positivo è più organizzata: questo consente un più rapido turn-over dei malati nei reparti ad alta intensità di cura; anche se persiste l’esigenza di veder aumentare il numero di queste strutture.

 

Quali sono le sue previsioni in merito all’andamento della curva epidemiologica? Ritiene che ci sarà un terza ondata?

La terza ondata è inevitabile perché c’è stato un alleggerimento delle misure di contenimento a livello della popolazione e perché è troppo presto per godere dell’impatto della campagna vaccinale.

Il mio auspicio è che questo aumento sia contenuto (anche perché una parte della popolazione ha già contratto l’infezione) e che non si debba ricorrere a un nuovo repentino aumento dell’offerta di posti-letto per malati COVID, con le problematiche della medicina d’urgenza che ho illustrato prima.

 

Per quanto riguarda il vaccino anti-Covid, per quando possiamo aspettarci la sua completa disponibilità?

L’immunità indotta dal vaccino attualmente in utilizzo (Comirnaty di Pfizer/BioNTech) si sviluppa gradualmente, raggiungendo il livello di protezione voluto 1 settimana dopo la seconda dose. Siccome la seconda dose viene somministrata dopo 21 giorni dalla prima, il singolo vaccinato gode di una protezione dopo circa 1 mese dalla prima dose. Dato che la vaccinazione procede a cerchi concentrici, interessando un numero via via maggiore di persone, ma con tempi non rapidissimi per motivi organizzativi, ci vorranno mesi perché la maggior parte della popolazione sia “protetta”.

Gli epidemiologi stimano che la cosiddetta immunità di comunità (o immunità di gregge, se preferite) si possa instaurare quando circa il 70% dei cittadini è stato vaccinato.

Con un po’ di ottimismo, se questi vaccini mantengono la loro efficacia nel tempo (e questo è impossibile saperlo oggi, perché le prime persone vaccinate negli studi registrativi dei vaccini sono sotto osservazione da pochi mesi) già a primavera potremmo vederne gli effetti su vasta scala.

Ma le persone devono farsi vaccinare!

 

Molte persone sono ancora restii a recarsi negli ospedali per paura di contrarre il virus, il che rappresenta un ostacolo consistente per l’efficienza del sistema trasfusionale. Che consigli può dare ai nostri donatori?

A giudicare dall’afflusso dei malati in PS, il timore di accedere alle strutture ospedaliere è meno evidente rispetto alla prima fase. Non si può negare che il Pronto Soccorso e i reparti di degenza ospedaliera costituiscano ambiti di potenziale rischio, perché esiste una possibile commistione tra persone infette e persone sane. Se vanno evitati gli assembramenti nei negozi, agli eventi sportivi, nei bar, eccetera, sarà ancor più vero in ambito sanitario! Negli ospedali si è fatto molto per ridurre questo rischio: controlli della temperatura agli ingressi, regolamentazioni dei flussi dei visitatori, identificazioni di percorsi separati e realizzazione delle zone cosiddette zone COVID-free dovrebbero offrire buone garanzie per evitare i contatti a rischio. Ma moltissimo dipende dai comportamenti del singolo individuo: ormai sappiamo tutti che la regola delle 3 M (Mani da lavare/sanificare, Mascherina da indossare e almeno un Metro di distanza dagli altri) sono i pilastri della nostra autotutela.

 

Perchè il test sierologico, talvolta consigliato prima dell’effettuazione del tampone rinofaringeo, non sempre dà risultati attendibili?

Ci sono ancora troppe incertezze sull’affidabilità di questi test:

NON sappiamo se gli anticorpi che rilevano sono protettivi;

NON sappiamo per quanto dura questa protezione;

NON sappiamo se la loro comparsa coincide con l’interruzione della trasmissibilità del virus;

E infine non sono accurati al 100%: per quanto alta sia la loro sensibilità e specificità, espongono ancora al rischio di falsi negativi e falsi positivi.

Quindi sono molto utili a fini epidemiologici, cioè per capire la diffusione in aree geografiche o popolazioni diverse (ad esempio, tra gli operatori sanitari o in comunità chiuse), per dare indicazioni e indirizzare meglio i nostri interventi di prevenzione.

Possono essere impiegati anche in casi clinici selezionati, per integrare gli esami diagnostici in pazienti di cui, però, conosciamo bene la storia di malattia e l’esito dei tamponi. 

Altrimenti meglio non usarli: la positività non garantisce la certezza della protezione e la negatività non esclude la possibilità di essere infetto. Esistono oggettivi problemi interpretativi: questo implica che l’autoprescrizione di questi test è fonte di equivoci e la decisione di richiederli va lasciata al medico, a cui è lasciata l’interpretazione dei risultati.

 

Torneremo mai alla normalità?

Sono convinto che torneremo alle nostre abitudini di vita, ma potrà essere che sia una “normalità” diversa. Probabilmente si manterrà l’abitudine ad usare le mascherine protettive in alcune situazioni (magari per proteggersi dall’influenza anziché dal coronavirus), aumenteranno le vaccinazioni stagionali e le persone coinvolte.

Ma potrebbero esserci anche ricadute positive: dobbiamo augurarci che venga riorganizzata la Sanità territoriale e che siano potenziati i sistemi di gestione in telemetria di controlli e consulenze, che faciliteranno l’accesso ad alcuni servizi dei malati e alleggeriranno il peso dell’attività ospedaliera. Aumenteranno le situazioni in cui si preferirà il lavoro a domicilio a quello “in presenza”.

Non sarà necessariamente una “normalità” più complicata. Sarà una “normalità” in cui dovremo essere tutti più responsabili di noi stessi e degli altri.

 

Back To Top