Felice blue monday a tutti!…
Suvvia, perché rassegnarsi alla consueta associazione del blu con l’alone della tristezza? Conosciamo tutti un modo di dire altrettanto popolare, che lo eleverebbe invece a vernice della prosperità: l’espressione “sangue blu”, ormai da secoli, viene usata per designare tutti coloro che si inseriscono all’interno di una genealogia nobiliare. Questo modo di dire ha origini poco chiare, e a rigor di logica non avrebbe ragion d’essere: dai fregi purpurei delle tuniche dei senatori romani al vermiglio in cui sventolavano i blasoni di molte casate medievali, è sempre stato il rosso a incarnare i valori di vittoria e supremazia. Che interesse ci sarebbe stato, da parte di chi sovrastava la piramide sociale, a proclamare che il proprio sangue fosse di un altro colore?
Secondo lo storico britannico Robert Lacey (conosciuto anche per il suo lavoro come consulente per la serie Netflix The Crown) l’espressione avrebbe preso piede nella Spagna tardo-medievale, non prima del VI secolo. Con le prime invasioni della penisola da parte degli arabi e l’inizio delle inevitabili unioni miste tra occupanti e autoctoni, divenne prioritario, per ogni iberico fiero di essere tale, dimostrare che il proprio lignaggio non fosse stato “contaminato” dal sangue degli usurpatori. Una distinzione del genere, naturalmente, non poté che far leva sul colore della pelle; eppure si trovò il modo di rendere questo discrimine ancora più netto, ancora più intrinseco: gli spagnoli presero l’abitudine di lasciare in mostra i propri polsi, dove la carnagione bianca rendeva ben visibile il colore bluastro delle vene. Al contrario, i cosiddetti “Mori” non avevano modo di ostentare le proprie, celate dalla pelle scura, e così il presunto sangre azul divenne garanzia e sinonimo di “purezza” (quantomeno dal punto di vista degli Europei).
Questa ipotesi, esposta da Lacey nel suo saggio Aristocrats, necessita comunque di qualche delucidazione. Sebbene la domanda non sorga così istintiva, in effetti, occorre porsela una volta per tutte: perché le vene sono di colore blu? La risposta è straordinariamente semplice: non lo sono. La realtà delle fattezze anatomiche del nostro organismo ha poco a che fare con le schematizzazioni cromatiche dei libri di scuola, che farebbero proprio pensare che il sangue “sporco” defluito dalle vene contraddica fermamente quel cremisi scintillante tipico delle arterie. Ora, che il sangue povero di ossigeno non sia acceso come quello appena rifornito è un dato di fatto, ma si tratta di null’altro che una tendenza più evidente verso sfumature brune.
È pur vero che, se una porzione di vena venisse svuotata di tutto il sangue, le sue pareti non apparirebbero perfettamente trasparenti, bensì traslucide. Per un osservatore esterno, quindi, la sovrapposizione di certi riflessi grigiastri al rosso scuro del liquido potrà determinare un equivoco nell’impressione complessiva del colore; la sfumatura violacea risultante, però, si manterrà comunque distinta da qualsiasi tipo di blu.
Tutto ciò non toglie che, viste attraverso la pelle dei polsi, le vene sono blu, lo sono eccome. Per districare questa aporia occorre attingere agli studi della fisica: quando la luce penetra attraverso la pelle, il tessuto adiposo sottocutaneo ne assorbe le componenti a bassa frequenza (quelle corrispondenti al rosso e ai colori ad esso inerenti), perciò, dopo aver raggiunto la superficie delle vene ed esservi rimbalzata contro, quella che arriva ai nostri occhi è la residua luce ad alta frequenza, tradotta dal nostro apparato visivo con la gamma di colori relativi al blu.
Ad ogni modo, il motivo per cui la diceria del “sangue blu” e il suo significato di purezza divennero di pertinenza dei soli nobili è da correlare alla differenza di abitudini tra questi e i ceti meno abbienti: se i primi passavano la maggior parte del loro tempo in casa, al riparo di lussuose dimore, gli altri erano perlopiù impiegati nei campi, anche e soprattutto sotto il cocente sole estivo. Proprio come i “Mori”, dunque, nemmeno questi braccianti costantemente abbronzati avevano modo di provare di avere il sangue blu. Ed è ovviamente in questa accezione elitaria che il detto straripò dalla Spagna e si diffuse in tutta Europa, assumendo i connotati di un vessillo con cui i nati benestanti esibivano il privilegio di non lavorare.
Altre teorie fanno risalire la storia di questa curiosa locuzione alla frequenza con cui gli ambienti nobiliari erano colpiti da due singolari malattie: l’argiria e l’emofilia.
La prima, provocata dalla contaminazione del sangue da parte di particelle di argento, comporta un’anomalia dermatologica parziale o totale, tale per cui la pelle assume un colorito tra il grigio e il blu. La sua diffusione tra i nobili si spiega da sé, dal momento che loro soli, pressoché in ogni epoca, hanno potuto permettersi di banchettare tre volte al giorno e tutti i giorni con stoviglie d’argento.
L’emofilia, come illustrato nell’articolo a riguardo, consiste invece in un difetto di coagulazione del sangue: lividi ed emorragie dilagano indisturbati, concorrendo a miscelare sfumature cutanee analoghe a quelle causate dall’argiria. Era consuetudine degli aristocratici accoppiarsi solo con altri aristocratici, spesso tra parenti anche non alla lontana; limitando notevolmente la diversità genetica, un sistema di unioni coniugali così serrato non poteva che favorire l’insorgere di una malattia che ha proprio origini genetiche: un portatore sano di emofilia che si congiunga a un soggetto della stessa famiglia, tra i cui rami aleggia lo stesso gene nocivo, ha cospicue probabilità di dare alla luce un figlio emofilico.
In conclusione, è lecito supporre che il mito del sangue blu, sorto in Spagna, abbia trovato nell’argiria e nell’emofilia complici ideali per diffondersi a livello internazionale.
Ma quello che conta è che non c’è affatto da deprimersi in questo lunedì blu: a quanto pare, vene in vista o no, quest’oggi siamo tutti nobili!
A cura di Enrico Forte