Sebbene si sia già ampiamente trattato dei requisiti che devono essere soddisfatti per diventare donatori [vedi Chi dona? e Sport e salute del sangue] hanno bisogno di un discorso esclusivo tutti quei casi di persone che, pur potendo donare il proprio sangue, non riescono a farlo. Talvolta, infatti, a precludere l’esperienza della donazione non è l’inadeguatezza dello stato di salute fisica, bensì un’interferenza tutta mentale: la belonefobia, la fobia degli aghi. Da un’indagine del Centro Nazionale Sangue è risultato che, su 110 individui considerati, sono più di 20 a non donare per paura dell’ago.
È una condizione che interessa pressoché indifferentemente uomini e donne, seppur con un lieve sovrannumero di queste ultime: per ogni 2 belonefobici maschi ci sono 3 belonefobiche femmine. Nel 75% dei casi studiati dagli psichiatri è stata rintracciata nel vissuto del paziente una possibile situazione traumatica scatenante, ovvero un evento negativo associato alla presenza dell’ago che avrebbe da quel momento contaminato la percezione dello stesso. Non è comunque da escludere una componente atavica: è presumibile immaginare che, all’alba dei tempi, la sollecita repulsione per corpi appuntiti come zanne, artigli o pungiglioni costituisse un’ottima risorsa di sopravvivenza, e che in molti di noi si sia preservata fino ad oggi.
Ma nel XXI secolo, ovviamente, questo istinto comporta più limitazioni che vantaggi, compromettendo una porzione consistente della vita quotidiana: basti pensare alla frequenza con cui è bene sottoporsi ad un esame del sangue, o a quanto può essere imprevedibile l’urgenza a vaccinarsi. A innescare la tipica reazione di angoscia nei confronti dell’ago, inoltre, non è solo la sua vicinanza, non è solo l’effettiva minaccia di essere punti, ma è generalmente sufficiente la sua attesa, la prefigurazione del momento in cui si entrerà a contatto con lo spillo. Proprio per questo, la strategia più comune che il soggetto belonefobico adotta per fare i conti con la situazione è, semplicemente, una condotta di evitamento: i prelievi vengono rimandati di continuo, ai vaccini si fa ricorso solo in casi di necessità estrema; la donazione, è appena il caso di precisarlo, assume i connotati di una vera impresa, tanto più se si considera che spesso alla belonefobia si accompagnano la paura del sangue (emofobia) e delle ferite (traumatofobia).
È grande il rammarico di tutti coloro che, pur avendo a cuore la causa di AVIS, si ritrovano nell’impossibilità di portarla avanti in prima persona. Perché è di questo che si tratta: un’impossibilità, un automatismo da cui il soggetto non può in nessun modo prescindere. Troppo spesso le fobie vengono giudicate con sufficienza, in troppi si ostinano a derubricarle a segni di una scarsa forza di volontà. Un tipico “incoraggiamento” vuole che il dolore procurato dall’ago della donazione sia meno intenso di quello della puntura di una zanzara: per quello che vale, è come incitare uno con la gamba rotta ad alzarsi e camminare, invece di aiutarlo a riabilitarsi. È cruciale comprendere che il fobico non ha niente a che fare con il pavido: una persona belonefobica è perfettamente cosciente di quanto sia esiguo il dolore inflitto dall’ago, ma non ha il controllo sul panico sproporzionato da cui immancabilmente si ritrova impadronito. Quella che viene ad avere luogo è una situazione di dissidio interiore, un vero e proprio conflitto tra il desiderio di donare e lo sgomento per il momento della trasfusione in sé. Il belonefobico arriva così ad auto-vituperarsi per la propria mancanza di coraggio; eppure nessuno si sognerebbe di punire la propria incapacità di comandare i muscoli cardiaci a pompare una quantità maggiore o minore di sangue…
In ogni caso, tutto ciò non significa che il problema sia insormontabile. Ci sono svariate linee d’azione possibili per superare questa come qualsiasi altra fobia, e una terapia in particolare è alla portata di ognuno: l’esposizione graduale. Approccio semplice ma per niente facile, l’esposizione graduale richiede al paziente uno sforzo notevole, prevedendo un percorso progressivo in cui ogni fase è più vicina, rispetto alla precedente, al faccia a faccia definitivo con l’oggetto della fobia. Nel caso di cui ci stiamo occupando, il belonefobico sarà chiamato prima di tutto a pensare con regolarità all’immagine dell’ago, poi ad abituarsi alla sua presenza fisica, infine tenterà il contatto. In questo modo, senza bruschi cambiamenti, l’ago diventerà una costante nella vita di tutti i giorni; la mente avrà tutto il tempo di familiarizzare con esso e, rendendosi conto dell’inconsistenza della minaccia, disinnescherà gli allarmi preventivi della fobia. A riabilitazione compiuta, sarà probabilmente necessario mantenersi “in allenamento” e prendere come abitudine la vicinanza con gli aghi, monitorando di volta in volta le proprie reazioni.
È bene specificare, comunque, che anche in caso di successo l’esposizione graduale potrebbe non essere sufficiente per affrontare la donazione, a causa delle dimensioni dell’ago, effettivamente più grosso della media, e la durata relativamente lunga (almeno dieci minuti) della procedura. Se così dovesse essere, non c’è di che disperarsi: è stato dimostrato che la belonefobia va incontro a un processo di attenuazione nel corso degli anni, fino in genere alla risoluzione spontanea in seguito ai 40 anni d’età. Se soffri di belonefobia, quindi, non metterti fretta; preoccupati piuttosto di preservarti in salute in vista di quel momento, quando avrai finalmente l’opportunità di fare la tua parte!
Noi ti aspetteremo!
A cura di Enrico Forte