Covid-19: una ricognizione del Dr. Franzetti e del Dr. Saturni
Venerdì 29 ottobre si è tenuto il 19° Convegno della sottosezione di AVIS Borsano, questa volta incentrato sul tema “Covid 19 – Cosa è successo, la situazione attuale, il futuro che ci aspetta”. Dopo un momento di raccoglimento in memoria del nostro socio Pietro Secondin, scomparso lo scorso 25 ottobre e di cui il consigliere Luigi Pinciroli ha voluto ricordare «la verve, lo spirito, la battuta sempre pronta quando più era indispensabile», la parola è passata al Dr. Fabio Franzetti, infettivologo presso l’Ospedale di Busto Arsizio.
La particolarità dei coronavirus
Il Dr. Franzetti ha introdotto la sua disamina del fenomeno Covid-19 con una rapida ricognizione delle grandi pandemie del passato, mettendo in evidenza la grossa insidia dei coronavirus (quindi dell’influenza in generale) rispetto ad altri contagi: si tratta di una famiglia di virus che condividiamo con gli animali. È per questo che il proposito di eradicarli risulta così difficile, in quanto sarebbe impossibile mettersi a rastrellare, ad esempio, tutti i volatili del mondo per scovare tracce dell’infezione e poterla così sgominare. Al contrario, l’eradicazione di un virus come il vaiolo fu così efficace proprio perché, seppur i suoi effetti fossero più debilitanti e letali di quelli del Covid, si trattava di un virus che contagiava solo gli umani.
L’inaffidabilità delle “cure”
Franzetti ha proseguito passando in rassegna le mode più diffuse in fatto di trattamento del Covid-19, soprattutto soffermandosi sul ricorso a idrossiclorochina e quello a ivermectina.
Per quanto riguarda la prima, a determinare la sua fama fu la sponsorizzazione, all’inizio della pandemia, da parte del medico francese Raoult, che aveva somministrato l’idrossiclorichina a 24 pazienti di cui 18 erano poi guariti.
Franzetti fa tuttavia notare l’inconsistenza dei risultati, precisando che durante un’infezione virale bisogna distinguere tra una fase in cui effettivamente il virus è presente nell’organismo del paziente (e allora bisogna somministrare farmaci antivirali) e una fase in cui il virus di fatto non c’è più, ma in cui tuttavia i sintomi – che non sono altro che manifestazioni della risposta immunitaria al virus – ancora non si “spengono”, rendendo necessaria la somministrazione di analgesici e/o antipiretici per evitare ritorsioni sull’organismo stesso. Un medesimo paziente necessiterà quindi di farmaci differenti a seconda della fase che sta vivendo: somministrare un antipiretico nella prima fase è una perdita di tempo, così come ricorrere a un antivirale nella seconda fase.
È per questo che non è sufficiente associare alla somministrazione di idrossiclorochina la guarigione dei pazienti, in quanto non è chiaro se qualcuno di loro stesse già passando la seconda fase, in cui l’azione antivirale del farmaco sarebbe risultata del tutto inutile e a cui dunque non si può attribuire il merito della guarigione.
Un numero più consistente di pazienti analizzati avrebbe forse aiutato a fare più chiarezza, ma in ogni caso una serie di esami successivi ha rivelato come sul lungo periodo l’uso di idrossiclorochina su pazienti positivi al Covid ne abbia addirittura leggermente aumentato la mortalità, probabilmente a causa dei suoi effetti collaterali sull’attività cardiaca.
Ancora più lampanti i rischi dell’ivermectina, messi in risalto dai dati del Centro Veleni dell’Oregon con 6 casi di intossicazione su 17 persone che la avevano assimilata.
In entrambi i casi, dunque, la corsa all’acquisto di questi farmaci in una situazione in cui non erano di nessuna utilità ha solo causato il rapido esaurimento delle scorte, precludendone la disponibilità a chi invece ne aveva realmente bisogno.
L’opzione restante: i vaccini
Scartata la possibilità di trattare efficacemente il Covid coi farmaci tuttora esistenti, dunque, l’alternativa resta quella rappresentata dai vaccini.
Innanzitutto, Franzetti smentisce le voci su una produzione troppo precipitosa del vaccino contro il Covid: era da anni che i ricercatori lavoravano su un vaccino per la SARS, e quindi non restava loro che ri-settarlo sulla SARS-Cov-2.
Per quanto riguarda l’altro grande dubbio dei detrattori del vaccino, inerente all’esistenza di varianti del Covid che potrebbero vanificarne l’utilizzo, Franzetti spiega che le varianti sono delle mutazioni casuali del virus che si sviluppano durante la replicazione del virus stesso: più volte il virus si replica, dunque, più è alta la probabilità che a un certo punto, da qualche parte, salterà fuori una variante. Quello che bisogna fare per stroncare in partenza l’insorgere di varianti, di conseguenza, non è altro che impedire al virus di replicarsi; e come impedirglielo, se non vaccinandosi tutti quanti?
Covid e donazioni, donazioni e vaccino
Concluso l’intervento del dottor Franzetti, prende la parola il dottor Vincenzo Saturni, già presidente di AVIS Nazionale e di AVIS provinciale e comunale di Varese, nonché attuale dirigente medico presso il Servizio di Immunoematologia e trasfusione dell’Ospedale di Varese. Saturni riassume lo stato delle donazioni durante la pandemia e prende in considerazione le notizie sul plasma iperimmune.
Il dottor Saturni rassicura sulle preoccupazioni che il Covid possa incidere sull’idoneità di un buon donatore, dal momento che la trasmissione non avviene per mezzo del sangue. Invece, per quanto riguarda la possibilità di donare dopo aver fatto il vaccino, bisogna tener conto di una fase di latenza variabile dalle 48 ore alle 4 settimane; ma nel caso dei vaccini a mRNA si parla di massimo 7 giorni dalla scomparsa dei sintomi post-iniezione, un periodo di sospensione che per sicurezza si è deciso di prescrivere a tutti i vaccinati, a prescindere.
Plasma iperimmune: una via agibile?
Saturni parla infine del cosiddetto “plasma iperimmune”: con questa espressione si indica, in generale, il plasma di chi è provvisto di un alto numero di anticorpi contro un determinato antigene; può quindi trattarsi anche degli anticorpi contro il Covid-19 nel caso di una persona guarita dal virus. A partire dal plasma iperimmune sarà quindi possibile isolare tali anticorpi e sintetizzare farmaci specifici contro una certa malattia, infatti i farmaci plasmaderivati sono già in circolazione per quanto riguarda il trattamento di diverse patologie. Ma allora perché non farlo anche per il Covid-19?
L’idea è in effetti ragionevole, e la produzione di medicinali di questo tipo è tuttora in corso.
In loro attesa, tuttavia, l’alternativa resta quelle delle trasfusioni di plasma iperimmune ai positivi al Covid, e un simile modus operandi, oltre ad essere impensabile da ripetere per tutti quanti i malati, ha dimostrato di dare esiti di scarsa efficacia. Vale infatti lo stesso discorso fatto dal dottor Franzetti: è difficile identificare la fase della malattia in cui si trova il paziente, e l’impiego del plasma iperimmune nella seconda fase (quella in cui il virus è ormai scomparso) si traduce solo in uno spreco delle scorte di unità donate.
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A cura di Enrico Forte