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Tutti gli utilizzi del sangue

Stravaccato in sala trasfusioni, ipnotizzato dal lento su e giù della centrifuga, il donatore finisce inevitabilmente per farsi la domanda: a chi andrà il mio sangue? La mente gli vola subito a scenari tristemente tipici, perlopiù tragici incidenti stradali con emorragie incontrollate. In situazioni del genere, è chiaro, l’importanza di una ben fornita riserva di sangue è incalcolabile; ciononostante, gli scopi delle donazioni non si esauriscono tutti su questo orizzonte.

Spesso non si pensa ad altri ambiti di impiego che, seppur meno “movimentati”, sono all’ordine del giorno e assumono il medesimo valore capitale. 

Il sangue è un tessuto non riproducibile in laboratorio, e proprio in questo deficit sta la preziosità delle donazioni. In particolare, va da sé che l’affluenza di sangue donato risulta necessaria anche per la ricerca scientifica. Lo sviluppo di trattamenti atti a combattere la leucemia, per esempio, presuppone uno studio continuo e approfondito delle emocomponenti, necessariamente esercitato su campioni tratti da organismi in vita.

Queste incessanti indagini non possono permettersi di dare niente per scontato, quindi hanno bisogno di un approvvigionamento costante di esemplari sperimentali. «Donare è un atto di fede nella scienza» spiega Alice Cani, ricercatrice sostenuta dalla Fondazione Umberto Veronesi «Nella maggior parte dei casi i risultati si vedranno tra molti anni, ma è l’unica via per garantire un futuro con cure migliori a noi e alle persone a noi care».

Un risvolto delle donazioni sanguigne che, lungi dall’essere più “sterile” o meno “eroico” degli altri, costituisce una porzione basilare delle prospettive di utilizzo, rappresentando la sola possibilità di progresso nella lotta contro le malattie del sangue. 

Proprio nell’ambito della lotta contro le malattie si inserisce un’altra funzione essenziale del donatore, vale a dire quella di àncora di salvezza per le persone affette da talassemia. Questa grave malattia del sangue provoca una situazione di anemia (cioè scarso numero di globuli rossi, quindi scarsità nel trasporto di ossigeno), finendo per invalidare l’efficienza di tutti i tessuti corporei. I pazienti talassemici necessitano pertanto di donazioni assidue, così da riequilibrare le mancanze del proprio sistema circolatorio e dell’organismo intero.

Il bisogno di una trasfusione può anche coinvolgere chi si sottopone a un intervento chirurgico, dal momento che durante l’operazione è consueto che il paziente perda una quantità di sangue più o meno importante. Nel caso di un intervento programmato, inoltre, è possibile avvalersi di un’auto-trasfusione: si trasfonde al soggetto il suo stesso sangue, prelevatogli preventivamente con largo anticipo. Questa procedura, naturalmente, annulla ogni rischio di incompatibilità e di trasmissione di malattie infettive. 

Anche in seguito a un parto può essere necessaria una trasfusione. Normalmente, la donna perde circa mezzo litro di sangue durante il parto vaginale, e circa il doppio durante il parto cesareo; il sanguinamento dall’utero è però ritenuto preoccupante quando oltrepassa la soglia di 1 litro.

Il fenomeno è tutt’altro che raro: l’emorragia post-partum rappresenta la prima causa di morte (più del 40% dei decessi totali) delle nuove madri. È allora che le scorte di sangue donato tornano essenziali. Purtroppo ricorrere a un’auto-trasfusione, in questi casi, è impossibile: implicherebbe una donazione da parte della donna non più di un mese prima del parto, ma alle donne incinte, per ovvi motivi, non è consentito donare il sangue.

In condizioni normali, comunque, il momento del parto può invece rappresentare l’occasione per una piccola donazione da parte della donna, attraverso un prelievo di sangue dal cordone ombelicale. Il cordone, infatti, è ricco di cellule staminali, che possono essere “coltivate”, lasciate crescere e differenziare in vari tipi di cellule specializzate (non solo sanguigne). Oltre a costituire un valido strumento per la ricerca, queste cellule sono potenziali “sostituiti” sfruttabili per la rigenerazione di tessuti danneggiati. Il prelievo post-partum, insomma, potrebbe a buon diritto essere descritto come la donazione più proficua di tutte.

Ma torniamo al nostro donatore pensieroso, tutto preso a chiedersi che cosa ne sarà del proprio sangue. I possibili tragitti sono innumerevoli, ma quello di cui può essere certo è che il suo gesto verrà messo a frutto da mani competenti e riverberato verso le esigenze forse di qualcuno, forse di molti.

A meno che, certo, l’unità di sangue donato non rimanga inutilizzata per più di 42 giorni, termine ultimo dopo il quale verrà distrutta… ma in quel caso ci sarà solo da gioire, non essendo stata necessaria alcuna trasfusione!

 

A cura di Enrico Forte

Scientificamente Avis: Estate e vitamine

Quale frutta o verdura mangiare d’estate? Vitamina C o Vitamina D? Il sole è davvero una fonte di vitamine? 

Siamo a giugno: l’estate è alle porte e con essa tutte le perplessità rispetto a quali abitudini, alimentari e non, seguire per vivere al meglio i mesi più caldi dell’anno.

“Siamo ciò che mangiamo” diceva Feuerbach e questo è vero soprattutto d’estate! 

Giugno, del resto, è fra tutti i mesi quello con più vasta scelta tra i vegetali per via dell’ampia gamma di frutta o verdura di stagione. Solo per citarne alcuni: asparagi, carote, cetrioli, lattuga, melanzane, pomodori, peperoni, ravanello, rucola, sedano, zucchine, angurie, ciliegie, fragole, lamponi, limoni, meloni, pesche, ribes e susine.

Mangiare vegetali di stagione è conveniente perché hanno caratteristiche organolettiche (ovvero tutte le caratteristiche chimico-fisiche di un alimento percepite dagli organi di senso) che suscitano in chi le assume reazioni “emotive” che ne favoriscono il consumo. Sono infatti sufficientemente saporite da non aver bisogno di condimenti o zuccheri, di cui tra l’altro la frutta è già ricca. Sono anche una fonte importante di sali minerali (o minerali essenziali) come Calcio, Potassio e Magnesio, necessari per una corretta funzionalità delle attività metaboliche dell’organismo e per bilanciare l’equilibrio idrosalino. 

Per rispondere a un altro dubbio: il sole non è una fonte di vitamina D, ma stimola l’organismo a produrne catalizzando la reazione che porta alla sintesi, appunto, di vitamina D o Colecalciferolo. Tuttavia, fra i vari componenti delle radiazioni solari elettromagnetiche, i raggi Ultravioletti (UV) rappresentano un potenziale agente mutageno fisico in grado di causare danni al DNA delle cellule e quindi favorire alcuni tumori della pelle, i melanomi, e danneggiare gravemente l’occhio provocando carcinomi, cataratta e danni alla retina.

E le vitamine? Se ne parla tanto senza sapere cosa siano realmente. Si tratta di composti organici che partecipano alle attività enzimatiche del nostro organismo e si chiamano “vitamine” perché non siamo in grado di sintetizzarle e quindi dobbiamo assumerle con la dieta. Il loro fabbisogno è limitato perché sono attive in quantità piccolissime, da pochi µg ad alcune decine di mg. La loro carenza (per apporto inadeguato, scarso assorbimento, aumentato fabbisogno) porta a sintomi di avitaminosi o ipovitaminosi. Esse si distinguono in idrosolubili, ovvero solubili in acqua, e liposolubili, quindi idrofobiche e solubili in solventi apolari. Da un punto di vista biochimico, le vitamine idrosolubili fanno parte della struttura dei Coenzimi (ad esempio i trasportatori di elettroni NAD+ e FADH, i Coenzimi Q e A…), composti organici coinvolti nelle reazioni di ossidoriduzione (la Vitamina E svolge infatti un’importante attività antiossidante) oppure nel trasporto di gruppi.

La vitamina D che abbiamo citato nel parlare di raggi solari è più propriamente detta vitamina D3 o Colecalciferolo per distinguerla dalla sua omonima “vegetale” vitamina D2 o Ergocalciferolo. Coinvolta nel metabolismo del Calcio, il suo fabbisogno giornaliero è di 5 µg/die per gli adulti e 10 µg/die per i bambini e le donne gravide, mentre una sua eccessiva introduzione può avere effetti tossici come ipercalcemia, nefrocalcinosi e ossificazione anomala dei tessuti molli. Il suo precursore biologico (provitamina) 7-deidro-colesterolo è contenuto in pochi alimenti in quantità adeguate come oli di pesce, tuorlo d’uovo, fegato animale, nei quali si trova abbondante anche la vitamina A. Quindi, la formazione di vitD3 a partire da 7-deidro-colesterolo avviene nella pelle proprio per azione della luce solare, che risulta quindi essenziale per la biosintesi di vitD3, la cui richiesta è maggiore nel periodo invernale a causa della minore esposizione alla luce solare. 

La vitD3 nel fegato può essere convertita a Idrossi-calciferolo e nel rene a Calcitriolo, composto che determina l’assorbimento di Calcio a livello intestinale e renale: quest’ultimo passaggio è favorito dal rilascio di Paratormone, ormone secreto dalle ghiandole paratiroidi in caso di ipocalcemia (basse concentrazioni di Calcio nel sangue). Il Calcitriolo favorisce l’assorbimento il Calcio in circolo il cui aumento (ipercalcemia) inibisce la secrezione di Paratormone aumentando quella di Calcitonina. In sintesi, la vitD3, come la vitamina A, agisce come un ormone steroide. 

Il Calcitriolo agisce, oltre che sull’assorbimento di Calcio a livello intestinale, anche sulla sua mobilizzazione a livello delle ossa e sul riassorbimento a livello dei reni. Tutti questi effetti contribuiscono al controllo della calcemia

La vitamina C o Acido ascorbico è invece una vitamina idrosolubile fondamentale nel metabolismo. Si trova in quasi tutti i vegetali freschi come agrumi, fragole, pomodori e kiwi, quindi in molti dei vegetali consigliati nella dieta estiva. È “vitamina” solo per i primati e altri animali, perché molte altre specie viventi sono in grado di sintetizzarla da sé. Il fabbisogno è di 60 mg/die ma può aumentare fino a 100mg/die: il fumo, infatti, abbassa il livello serico di vitC perché questa viene consumata dai radicali liberi (gli “ossidanti”). Tuttavia, senza ulteriori assunzioni, le scorte presenti nel nostro organismo sarebbero sufficienti per 3 mesi!

La famosa manifestazione carenziale di vitC è lo Scorbuto, una forma morbosa che in passato colpiva soprattutto i marinai (perciò detti “scorbutici”) che si nutrivano con alimenti conservati per lunghi periodi di tempo e quindi non freschi. Tale malattia comporta un’alterata sintesi del collagene per una difettosa idrossilazione (ovvero l’aggiunta di un gruppo idrossido OH) degli Aminoacidi e riguarda ossa, gengive, cartilagini e vasi. Per questo è anche coinvolta nel metabolismo del Fattore dell’Ipossia HIF: quando la cellula, che normalmente lavora in condizioni aerobiche, si trova in carenza di Ossigeno non è più in  grado di idrossilare gli Aminoacidi. L’HIF protegge la cellula da questa condizione di sofferenza entrando nel nucleo e promuovendo la sintesi del Fattore di crescita dell’endotelio vascolare, per poi essere degradato nella cellula stessa. La maggior parte dei tumori, quando non sono ancora in fase di neo-angiogenesi (ovvero formazione di nuovi vasi sanguigni) sfruttano temporaneamente l’HIF per la loro sopravvivenza in assenza di ossigeno. 

Insieme alla vitamina E è un antiossidante idrosolubile ed è importante per l’assorbimento del Ferro a livello intestinale, un elemento essenziale per l’organismo umano presente, fra gli altri, nei trasportatori di ossigeno (emoglobina e mioglobina). Una carenza di Ferro, infatti, provocherebbe una difettosa sintesi dell’eme (gruppo prostetico che lega l’ossigeno) e quindi anemia e ipossia tissutale.

A cura di Francesca Genoni

Le iniziative per la Giornata Mondiale del Donatore di Sangue

La Giornata Mondiale del Donatore di Sangue, in inglese World Blood Donor Day, si celebra, come ogni anno, oggi 14 giugno (istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2004, per ricordare la nascita di Karl Landsteiner, scopritore dei gruppi sanguigni). Quest’anno in particolare, l’Italia è stata scelta per ospitare l’evento globale, annullato nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria, si è optato per una versione principalmente digitale.

Lo slogan scelto dall’OMS per le celebrazioni del 2021 è ‘’Give blood and keep the world beating’’, in italiano ‘’Dona il sangue e fai battere il mondo’’: un modo per enfatizzare il contributo volontario e gratuito, che i donatori offrono per salvare vite ed assicurare terapie salvavita.

A questo proposito, gli enti organizzatori hanno desiderato rivolgere particolare attenzione alle giovani generazioni e al loro ruolo di guida nel portare ad un cambiamento culturale verso una maggiore consapevolezza del valore del dono e dell’adesione a forti ideali di vita ad esso correlati: solidarietà, volontariato e tutela della salute.

L’iniziativa principale di questo evento si è rivolta, già da alcune settimane, ai giovani tra i 18 e 45 anni, chiamati ad essere partecipanti attivi attraverso la realizzazione di progetti digitali all’interno del concorso #HackDonor2021, organizzato dal CNS.

Si tratta di un hackathon, nel quale giovani con competenze informatiche e grafiche hanno concorso, singolarmente o in gruppo, in una delle ‘’sfide’’ previste. Ogni sfida è stata abbinata ad una delle cinque associazioni riunite nel CIVIS o nella FIDAS ed in palio un premio ed una quota, poi devoluta ad associazioni o fondazioni di cura ad indirizzo onco-ematologico.

#Hackdonor2021 si è sviluppato su cinque ‘’Sfide’’, ognuna con un progetto diverso: un prodotto di social media journalism, una campagna di comunicazione, un’applicazione per la promozione o di ausilio per l’organizzazione della donazione, la produzione di un videogioco o un fumetto ed infine la composizione di un brano musicale.  

In particolare, AVIS è stato partner della sfida numero quattro, con la possibilità di realizzare un videogioco o un fumetto. Oltre all’originalità e alla presenza di elementi innovativi, sono stati premiati gli elaborati più efficaci nella promozione del dono, non come un atto eroico e speciale, ma come un gesto ‘’normale’’.

La celebrazione non finisce qui. Molte altre iniziative sono state realizzate (o saranno realizzate nel corso della Giornata), su proposta di Sottosezioni di Avis o di altre associazioni coinvolte nel. Ne è esempio la ‘’Staffetta della Solidarietà’’, iniziativa organizzata da Avis Comunale di Rimini: un cammino lungo la ‘’Via di Francesco’’, con partenza da Rimini ed arrivo oggi a Roma. Un’esperienza profonda, legata alla figura del pellegrino, che ha stimolato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importanza della donazione. 

La nostra Sottosezione ha optato per un semplice video in collaborazione con l’ASST Valle Olona e le Avis di Somma Lombardo, Gallarate e Saronno, riprendendo alcuni donatori e le motivazioni per cui è importante il dono di sangue per ciascuno di noi.

La celebrazione inoltre è diventata occasione per accogliere comitati scientifici con ospiti nazionali e internazionali, con i quali autorità governative, associazioni e organizzazioni si sono messi a confronto per pianificare miglioramenti del sistema trasfusionale nazionale, prendendo come modello il sistema italiano, quale esempio etico e sostenibile.

Altri temi rilevanti della Giornata riguardano la progettazione di una rete di comunicazione tra studiosi, pazienti e donatori e l’illustrazione di un piano d’azione 2020-2023 dell’OMS per l’accesso universale ad emocomponenti.

La Giornata Mondiale del Donatore di Sangue non è solo un’occasione per celebrare coloro che già sono donatori, ma anche per ribadire l’impegno comune e la necessità di proseguire il lavoro per garantire il raggiungimento di un livello di autosufficienza, cercando di attirare sempre di più i giovani verso questo atto di solidarietà e responsabilità.

#IoDonoPerchè

In occasione della Giornata Mondiale del Donatore di Sangue che si celebra proprio oggi, lunedì 14 giugno, i donatori Avis afferenti ad Asst Valle Olona, quindi i gruppi di Somma Lombardo, Busto Arsizio, Gallarate e Saronno hanno creato un video per raccontare a tutti le motivazioni che li spingono a donare il sangue, con l’obiettivo di attrarre sempre più volontari in un momento cruciale come questo.

Tessera del donatore: come leggerla

La tessera del Socio donatore di AVIS viene richiesta al momento dell’accettazione prima di ogni donazione. Essa riporta alcune informazioni fondamentali, oltre a quelle anagrafiche, relative ai gruppi sanguigni di appartenenza (esistono infatti ben 38 sistemi di classificazione dei gruppi sanguigni, ma di tutti questi solo due, AB0 e Rh, hanno un’effettiva rilevanza clinica): vediamo quali. 

 

Nella casella di sinistra è indicato il gruppo di appartenenza del sistema AB0: A, B o 0. Nella casella di destra è indicato il gruppo di appartenenza del sistema Rh: positivo (POS.) o negativo (NEG.).

 

La determinazione del gruppo Rh dipende da 3 geni (chiamati C, D ed E) ciascuno dei quali presente in due forme alleliche, una dominante e una recessiva (C e c, D e d, E e e). Si tratta di geni diversi che però vengono ereditati sempre insieme per via della loro posizione strettamente vicina sul cromosoma 1: il genotipo di un donatore per questi geni sarà, ad esempio, CDE/cde o analogamente CcDdEe.

A ciascun allele corrispondono delle glicoproteine di superficie che si comportano da determinanti antigenici. Il test per rilevare la presenza di queste glicoproteine è fatto solo per il gene D attraverso un antigene anti-D: la rilevazione dell’antigene D, detto anche Rh(D) e quindi la presenza di almeno un allele D rende il donatore Rh+; l’assenza dell’antigene D e quindi la presenza di entrambi gli alleli d rende il donatore Rh-.

 

Si tratta della tipologia di anticorpi rilevati nel sangue. In questo caso, il genotipo è scritto sull’etichetta adesiva bianca. Nel riquadro rosso, invece, è riportata (quando presente) una diversa dicitura a seconda del gruppo di appartenenza. Esistono infatti vari gruppi, come già accennato, molti dei quali scoperti inoculando nei conigli il sangue di alcune famiglie inglesi. I diversi anticorpi prodotti da questi animali hanno preso il nome delle famiglie suddette e risultano presenti in più forme alleliche. Per citarne due: Lutheran (alleli Lua? e Lub?) e Kell (alleli K e k).

Si tratta di informazioni non particolarmente rilevanti per il donatore, ma fondamentali per stabilire l’eventuale incompatibilità tra il sangue materno e quello fetale.

Note aggiuntive sugli anticorpi sono riportate alla voce (1) Anticorpi – altre indicazioni.

 

Nell’ultima casella sono indicate sinteticamente le due informazioni di maggior importanza trasfusionale: gruppo AB0 e Rh. 

Intervista al nuovo Presidente di Avis Busto, Giuseppe Bianchi

Abbiamo intervistato il nuovo Presidente della nostra Avis, Giuseppe Bianchi, attivo nel Consiglio della nostra Associazione già dal 1995 e volontario partecipe della Sottosezione di Solbiate Olona, per chiedergli i progetti e le intenzioni per questo suo nuovo percorso.

 

Buongiorno Giuseppe, ci dica qualcosa su di lei! 

Ho 61 anni appena compiuti e sono donatore dal 1982. Sono entrato a far parte del Consiglio fra il 95’ e il 96’ quando era Presidente il sig. Secondini, ma prima di allora sono sempre stato molto attivo come volontario nella mia sottosezione di Solbiate Olona, promuovendo e partecipando a tutte le iniziative dell’Associazione.

Che altro dire, beh… sono sposato, ho tre figlie e sono anche già nonno. Ho uno Studio Commercialista a Solbiate Olona in cui lavoro da anni insieme a mia moglie e… aspetto di andare in pensione.

Quali sono le motivazioni che l’hanno spinta a candidarsi come Presidente di Avis?

Premetto che è da più di vent’anni che mi mantengo in stretto rapporto con l’amministrazione dell’Associazione: sono stato tesoriere dal ’95 fino al 2004, e in seguito mia moglie è stata tra i consiglieri AVIS.

Quest’anno ho percepito un’aria nuova, per quanto riguardava sia il ruolo di presidente sia l’ufficio di presidenza in generale, e allora ho deciso di propormi. Ora, io purtroppo non sono ancora in pensione, e l’impegno sarebbe potuto diventare gravoso: la nostra è un’AVIS “comunale” solo per modo di dire, perché tra Busto e la Valle raccoglie un bacino di abitanti che supera la soglia dei 100.000. Però ho scelto delle persone che potessero darmi una mano, persone giovani, e visto che sono state tutte accettate mi sono confermato anche io. D’altronde, con tutto il rispetto per le persone che ci sono state e per il loro ottimo lavoro, mi è sembrato giusto cercare qualcuno in grado di garantire una continuità per più di un singolo mandato, anche perché, come dicevo, può rivelarsi un incarico impegnativo.

Ho comunque avuto la fiducia di tutti i consiglieri, e quindi ho accettato. Adesso vediamo di portare avanti questo lavoro.

Quali sono le priorità per i prossimi 4 anni?

È senza dubbio impellente avere un luogo più adeguato alla nostra esigenza, soprattutto in relazione al numero di donatori: stiamo parlando di 4500 donatori effettivi, che a seconda di età e sesso fanno circa 2-3 donazioni all’anno; si tratta di quasi 13.000 donazioni all’anno, anche se adesso, con i tempi di pandemia, purtroppo si sono ridotti a 6000-5000. Però parliamo sempre di un bel numero di donazioni. Quindi occorre trovare un dialogo proficuo con l’amministrazione dell’ospedale per poter disporre di un ambiente adeguato, o perlomeno adeguare i luoghi che ci sono a qualcosa di più conveniente per l’AVIS che siamo.

Un’altra cosa a cui tengo è portare a compimento la digitalizzazione dell’attività. Il sito, in particolare, deve diventare un luogo dove il donatore possa vedere la propria situazione riguardo a donazioni ed esami, e possa farlo con facilità e immediatezza. Dopotutto, si può donare fino a 65 anni, 70 anni proprio al massimo, quindi ormai tutti i donatori più anziani sono comunque gente degli anni ’60, che ha lavorato fino a ieri e ha dovuto adeguarsi alle nuove tecnologie. Non ci sono più i donatori di una volta, quelli che non sapevano neanche che cosa fosse il telefonino. A me mancano sì e no cinque anni prima di smettere di donare, e non sarò il massimo in queste cose però posso dire di avere una certa praticità con la tecnologia. Quindi mi sembra più che ragionevole questo obiettivo, poter garantire ai donatori di accedere al sito, con delle credenziali personali, senza che i risultati dei loro esami e il resoconto delle donazioni passate sia affidato all’obsoleto tesserino cartaceo. 

Comunque l’obiettivo principale, è chiaro, rimane quello di portare più soci possibili a donare: è questo lo scopo di Avis, ed è a questo scopo che sono subordinati i due suddetti.

Nonostante nel 2019 sia stato registrato un calo nel numero totale di donazioni, la percentuale di giovani donatori è aumentata. Secondo Lei come si potrebbe ulteriormente incentivare i giovani a conoscere la realtà Avis? (dati CNSangue)

In primis, devo fare un grosso evidenziamento al gruppo di lavoro che da anni è attivo presso gli istituti superiori di Busto, grazie soprattutto al professor Moscheni – che da quest’anno è anche nostro consigliere – insieme ad altri consiglieri come la dottoressa Langè, il signor Pinciroli e il dottor Trotti: tutti loro hanno fatto e stanno facendo un lavoro inestimabile presso le scuole, e gran parte dei giovani che si sono iscritti finora provengono proprio da queste realtà.

Dopodiché, il modo migliore per divulgare resta il passaparola: se i ragazzi che si iscrivono trovano un buon servizio e un’accoglienza sincera da parte dell’associazione, è chiaro, non esiteranno a invitare i loro amici ad iscriversi. Ma, ripeto, perché questo avvenga dobbiamo essere anzitutto noi a fornire un buon servizio, un ottimo servizio, ed è quello che faremo. Quindi, sì, il passaparola: credo sia questo il miglior viatico, al di là di tutte le iniziative AVIS nell’ambito delle varie manifestazioni – sono importanti anche quelle, certo, ma non avrebbero senso senza il passaparola da parte di chi si è già iscritto e dice: “è una cosa utile, è una cosa importante, e in più mi trovo bene”.

Che importanza ha avuto Avis, finora, nella sua esperienza personale?

Innanzitutto, penso che per me sia stato importante lo stesso scopo sociale di Avis, ovvero quello di donare sangue a chi ne ha bisogno senza poi sapere a chi va. Come dicevo prima ho donato per la prima volta nell’82, ma senza sapere cosa fosse Avis: ho imparato solo con gli anni.

Poi, egoisticamente parlando, sono sempre stato seguito dal punto di vista sanitario. Con 3 o anche 4 donazioni all’anno si è tenuti a fare esami, anche non specifici, ma pur sempre importanti per monitorare i valori biologici… tant’è che sono stato fermo 10 anni – dopo i quali sono rientrato e ho ripreso normalmente – per livelli troppo alti di transaminasi, non pericolosi ma comunque non adatti per poter donare. 

Devo dire quindi che, per interesse personale, essere donatori è un vantaggio notevole perché si è davvero sempre sotto controllo. 

Per concludere, come definirebbe il significato che ha avuto per lei l’elezione a Presidente?

Al di là dell’orgoglio personale, nonostante i Consiglieri mi conoscessero già, chi perché era nel Consiglio da tempo, chi perché in passato sono stato Sindaco di Solbiate Olona, la fiducia che mi hanno dato è stata quasi un “salto nel buio”. 

Il conoscermi come persona e il lavoro che ho svolto anche in altri campi è stato, probabilmente, ciò che ha spinto il Consiglio a eleggermi come presidente praticamente all’unanimità. Lo trovo un fatto davvero positivo perché ho la certezza di avere l’appoggio del Consiglio per tutte le decisioni che prenderemo. Poi, com’è giusto che sia, qualsiasi cosa verrà discussa: può essere che non tutti condivideranno le idee che proporrò, ma proprio per questo esiste il Consiglio. Se ne parla e se ne discute, ma alla fine ci vuole sempre un accordo unanime perché ciò che si decide insieme è definitivo. Non si lavora mai da soli ma insieme agli altri: sta poi a te, in questo caso a me come Presidente, la capacità (perché è una capacità!) di portare i Consiglieri dalla tua parte e di avvicinarli alle tue scelte. Poi ci saranno sicuramente idee altrettanto valide da parte degli stessi Consiglieri: è importante saper acquisire anche le idee altrui, perché se è una buona idea ma non è una mia idea, sono comunque consapevole che vada portata avanti.

 

Arte e diagnosi: il potere diagnostico delle arti figurative

Rappresentazione artistica e diagnosi medica: due discipline apparentemente dissonanti, eppure accomunate dal fondamentale atto di osservare. Si parla di “iconodiagnostica” quando le competenze mediche vengono applicate allo studio delle opere d’arte figurativa.

Tra gli esponenti della Scuola Realista, in particolare, è sempre stata sentita la necessità di acquisire conoscenze anatomiche, per accompagnare alla propria attività artistica una solida consapevolezza medica: ne è un esempio paradigmatico Lezione di anatomia del Dottor Tulp 1 (1632) di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, pittore olandese. Vi sono raffigurati un professore e i suoi studenti, intenti ad esaminare un braccio dissezionato. Secondo alcune interpretazioni, il movimento del Professor Tulp è simile a quello che compie un pittore: è come se Rembrandt volesse proprio sottolineare la sinergia tra medicina e arte.

Anche a Leonardo questa analogia era ben presente, come si nota nella estrema precisione del suo Uomo vitruviano 2 (1490). Questo, passato alla storia come ideale platonico di proporzioni anatomiche, presenta tuttavia un particolare dai più ignorato: il piede destro non ha cinque dita, ma sei. Una constatazione che la dice lunga su quanto l’idea di perfezione sia soggettiva e soprattutto arbitraria.

Ulteriori esempi di esadattilia sono forniti da due raffigurazioni di Raffaello: in Madonna di Casa Santi 3 (1498) è il piede del Bambino ad avere un sesto dito, mentre in Madonna Sistina 4 (1513-14) l’arto interessato è la mano destra del Pontefice greco Sisto II, martire e poi Santo nel III secolo.

Nell’affresco di Andrea Mantegna La Camera degli Sposi 5 (1465-1474) è fotografata un’altra “stravaganza”: l’artista ha ritratto in una domestica affetta da nanismo i sintomi di una malattia genetica rara, la neurofibromatosi di tipo I. L’ipotesi parrebbe corroborata da altri caratteristici segni: protuberanze sul viso (i neurofibromi, appunto) insieme a macchie sulle guance e sul mento.

Ancora più inconsueta è la condizione testimoniata da un anonimo pittore tedesco nel ritratto Petrus Gonsalvus 6: il nobile spagnolo raffigurato è evidentemente affetto da ipertricosi, un’anormale crescita di capelli su tutto il corpo. Si tratta del primo caso documentato di questa sindrome, anche conosciuta come “sindrome del lupo mannaro”.

Per contrasto, in Ritratto di ecclesiastico 7 (1680-1690), l’anziano protagonista mostra i segni di una chiara alopecia androgenetica (la famigerata calvizie), patologia tipica degli uomini,  oggi come ieri molto diffusa. 

Non manca, comunque, la raffigurazione di una donna con la stessa patologia. In Ritratto di Battista Sforza 8 (1465-66) di Piero della Francesca, l’ampia e spoglia fronte della giovane duchessa fa supporre l’azione di una forma giovanile di alopecia frontale. Occorre però tenere in considerazione che, secondo la moda del tempo, le donne tendevano a tirarsi indietro i capelli e a rasarseli parzialmente per meglio mostrare il viso ed esaltare la propria bellezza: non è quindi detta l’ultima diagnosi.

Ora, ci si potrebbe stupire di fronte alla frequenza di questa estrema schiettezza rappresentativa. Infatti non si può non considerare un’intrigante possibilità offerta da pennelli e scalpelli: quella di “correggere” il modello riprodotto nell’opera, riportando “nei ranghi” le sue imperfezioni estetiche. Anche alla luce dell’impegno dell’arte realista di aderire con precisione al mondo che osserva, d’altronde, sarebbe facile aspettarsi un intervento di “normalizzazione” da parte dell’artista, che in fondo ha sempre il potere di operare un “effetto PhotoShop” sul proprio lavoro. Il rifiuto di così tanti artisti di ritoccare i difetti dei modelli rappresentati, invece, non può che rendere tutte queste testimonianze mediche ancora più preziose.

Si pensi a Ritratto di un dottore di Giovanni Battista Moroni 9 (1524-1578), in cui quello che sembra un magistrato del tempo (un dottore in legge, dunque) viene raffigurato insieme a un considerevole bitorzolo al centro della fronte: è probabile che si tratti di un lipoma, un accumulo di grasso sotto la cute. In quanti resisterebbero alla tentazione di bypassare questa anomalia, in quanti non seguirebbero la pulsione (anche inconscia) di dipingere una fronte liscia e uniforme? Moroni, al contrario, non rinnega il suo scrupolo realista e fa di questo lipoma la peculiarità della sua opera.

Una situazione simile si riscontra ne La famiglia di Carlo IV 10, in cui sulla tempia di Maria Giuseppina di Borbone (la quarta figura da sinistra) si nota una sorta di macchia scura. Molti la hanno identificata con un melanoma, un tumore cutaneo potenzialmente molto pericoloso. In questo caso, comunque, l’autore Francisco Goya parrebbe avere la precisa intenzione di mettere in risalto la vanità e le imperfezioni di questa famiglia, quindi la riproduzione del melanoma sarebbe funzionale a questo scopo demistificante. 

Rivestono un particolare interesse alcune opere in cui farebbe capolino un pressoché indubitabile tumore al seno. La notte, tanto nell’originale scultoreo 11 (1534) di Michelangelo quanto nella trasposizione in pittura 12 (1565) di Michele Tosini, consiste in un nudo di donna semidistesa, il cui seno sinistro manifesta un’evidente distorsione. Oltre alla difficoltà di rendere questo dettaglio, su tela come su marmo, sarebbe qui a maggior ragione comprensibile un’operazione “correttiva”, volta a ristabilire la simmetria tra i seni. Ma questo non succede, così come nel caso analogo de La Fortezza 13 di Maso da San Friano.

Impressionante la minuziosità di Hans Holbein il Giovane, che nel suo Ritratto di Sir Richard Southwell 14 non manca di restituire con tridimensionalità quasi “tattile” i connotati del nobile rappresentato: la fronte, il mento e la guancia risultano increspate dalle cicatrici di una passata tubercolosi.

In modo ben più inequivocabile, il Ritratto di Ferdinando II de’ Medici 15 (1626) immortala il Granduca in un momento critico di contagio da vaiolo, con innumerevoli pustole a rendere il volto irriconoscibile. Ferdinando sarebbe guarito dalla malattia, ma sarebbe poi morto di ictus nel 1670.

La rappresentazione di quella che sembrerebbe un’eruzione cutanea da herpes zoster, invece, è funzionale ad arricchire l’ambientazione infernale e terrificante de La tentazione di Sant’Antonio 16 di Matthias Grünewald (la figura interessata è quella in basso a sinistra). Il soprannome dell’herpes zoster, “fuoco di Sant’Antonio”, è appunto legato a un episodio leggendario della vita del santo, che durante un viaggio nel deserto sarebbe stato assediato dalle fiamme del diavolo procurandosi ustioni su tutto il corpo – simili ai violenti rash cutanei di questa malattia.

Anche una singolarità estetica del calibro della vitiligine ha avuto il suo spazio nell’arte, attraverso la mano del misterioso pittore settecentesco Le Masurier. I suoi ritratti inquadrano soprattutto abitanti delle Antille, come Madeleine de La Martinique 17, una donna che sorregge un bambino affetto da questa vasta depigmentazione cutanea.

Non manca poi l’attenzione a disturbi legati più che altro alla senilità. In Ritratto di vecchio e nipote 18 del Ghirlandaio (1449-1494) il soggetto anziano presenta i sintomi di un palese rinofima, un’alterazione delle proporzioni del naso in una forma bitorzoluta.

In un’opera di Iacopino del Conte (1510-1598) è stata invece riscontrata una forma artritica che colpisce le mani del soggetto rappresentato. La rilevanza del particolare sta nel fatto che l’opera in questione è il Ritratto di Michelangelo Buonarroti 19: è probabile che il celebre artista avesse cominciato a soffrire di artrite in seguito alla sua dedizione costante all’uso di pennello e scalpello. Lungi dal voler sublimare le malattie e le deformazioni dei propri modelli, dunque, è talvolta l’artista stesso ad essere affetto da disturbi del genere.

Un esempio estremo, radicale di simbiosi tra arte e accuratezza medica si incarna nelle Macchine Anatomiche 20, conservate nel sotterraneo della Cappella Sansevero a Napoli: due scheletri autentici, uno maschile e uno femminile, ognuno avvolto da una sconvolgente ricostruzione del rispettivo sistema arterovenoso. Realizzate intorno al 1760 dal medico Giuseppe Salerno, i due studi si distinguono per l’incredibile puntigliosità; proprio questa ha fatto sospettare una realizzazione operata con metodi discutibili, come l’uccisione e l’imbalsamazione di due servi del committente.

Ma tutte queste rappresentazioni, tutta questa mole così densa ed eterogenea di punti di contatto tra occhio artistico e occhio medico, tutto questo non è che la punta di un iceberg  gigantesco. C’è un’intera tradizione figurativa che raccoglie documenti di questo tipo, trascendendo i confini tra epoche e nazioni. L’arte è un inesauribile repertorio di potenziali diagnosi, e oltre a fornire un appassionante esercizio per i medici in erba permette a tutti noi di acquisire un’essenziale consapevolezza: le malattie ci sono sempre state e quindi sempre ci saranno, di conseguenza abbassare la guardia non è un’opzione.

 

 

Scientificamente Avis: Eva Mitocondriale

In occasione della festa della mamma appena celebrata, l’articolo di oggi è dedicato ad una teoria scientifica tanto singolare quanto interessante, che ha per oggetto quella che è ritenuta la madre comune a tutti gli esseri umani oggi esistenti: la teoria di Eva mitocondriale. Il nome lascia facilmente intendere l’ispirazione alla figura di Eva, compagna di Adamo, i due personaggi biblici creati da Dio nella Genesi e dai quali tutta la specie umana, macchiata del peccato originale, ha avuto origine.

La teoria nasce dall’ipotesi secondo cui sarebbe esistita una presunta antenata comune, un’Eva per l’appunto, dalla quale tutti gli esseri umani viventi discenderebbero in linea materna. Tale assunto deriva dal fatto che i mitocondri, organuli cellulari con la funzione principale di produrre energia per tutte le attività biosintetiche e di motilità della cellula, presentano un proprio DNA circolare (mtDNA), caratteristica che, insieme alla riproduzione asessuata per gemmazione, supporta la teoria endosimbiotica secondo cui il mitocondrio fosse in origine un organismo procariote stabilizzatosi all’interno di una cellula ospite più grande come parassita per procacciarsi sostanze nutritizie in cambio di energia (da qui l’endosimbiosi), portando alla successiva comparsa delle cellule eucariotiche.

Tale DNA mitocondriale, se comparato fra individui di diverse etnie e regioni, suggerisce che si sia evoluto dalla sequenza di un singolo esemplare: perché proprio una femmina? 

La spiegazione sta nella gametogenesi, il processo di divisione cellulare meiotico che porta alla produzione dei gameti, le cellule sessuali. 

Nell’uomo distinguiamo infatti due tipi di divisione cellulare: mitosi e meiosi. La mitosi interessa le cellule autosomiche, ovvero quelle con corredo cromosomico diploide (46 cromosomi, 23 di origine paterna e 23 di origine materna, di cui 2 sessuali): durante la mitosi, da una cellula madre originano due cellule figlie geneticamente identiche alla madre. La meiosi, invece, interessa le cellule sessuali con corredo cromosomico aploide (23 cromosomi, di cui 1 sessuale): essa consta di 2 divisioni cellulari successive, tali per cui da una cellula autosomica con 46 cromosomi originano 4 cellule figlie, ciascuna con 23 cromosomi, variamente distribuiti e ricombinati, non geneticamente identiche alla madre.

Le cellule sessuali maschili prendono il nome di spermatozoi, quelle femminili di cellule uovo. Mediante la spermatogenesi, l’equivalente maschile della gametogenesi, da uno spermartogonio (spermatozoo “primordiale”) originano quattro spermatozoi. Al contrario, tramite l’ovogenesi, da un ovogonio (cellula uovo “primordiale”) origina una sola cellula uovo potenzialmente fecondabile e tre globuli polari che non hanno invece significato riproduttivo. 

Una differenza fondamentale nei due processi, oltre al rapporto finale (1:4 nell’uomo e 1:1 nella donna) sta nel fatto che, mentre la cellula uovo resta morfologicamente simile all’ovocita secondario (una delle fasi evolutive dell’ovogonio), lo spermatozoo cambia completamente forma rispetto allo spermatogonio. 

La formazione dello spermatozoo come tale prende il nome di spermiogenesi: durante questo processo, lo spermatocita secondario (una delle fasi evolutive dello spermatogonio) assume la nota forma di cellula costituita da una testa e un flagello e, nel fare ciò, cambia anche la distribuzione dei suoi organuli cellulari. Nello specifico, i mitocondri “avvolgono” l’area immediatamente successiva al collo dello spermatozoo, che collega la testa al flagello, costituendo nella sua parte intermedia una guaina mitocondriale.

Al momento della fecondazione, quando lo spermatozoo raggiunge la cellula uovo nelle tube uterine di Falloppio, all’interno della cellula uovo entra soltanto la testa dello spermatozoo lasciando fuori il flagello e con esso i mitocondri. Questo significa che lo zigote, la prima cellula del nuovo individuo, ripristinato il corredo cromosomico diploide (23 cromosomi della cellula uovo e 23 cromosomi dello spermatozoo), eredita esclusivamente i mitocondri della madre. Quindi, eventuali mitocondriopatie, a meno che determinate da alterazioni del DNA nucleare, vengono ereditate in maniera matrilineare

Per tornare al discorso storico, basandosi sulla tecnica dell’orologio molecolare (secondo cui la differenza genetica tra due specie diverse, espressa dalla sequenza aminoacidica delle proteine o dalla sequenza di nucleotidi nel DNA, è funzione del tempo di divergenza dall’antenato comune), si ritiene che Eva mitocondriale sia vissuta in Africa fra i 99 mila e i 200 mila anni fa e che sia stata l’unica femmina del suo tempo ad aver prodotto una linea di figlie ancora esistente, e quindi solo i suoi mitocondri avrebbero discendenti nelle cellule degli esseri umani di oggi. Eva mitocondriale sarebbe, perciò, l’unica femmina della sua generazione da cui tutti  viventi discendono e, quindi, il più recente antenato mitocondriale di tutti gli esseri umani.

La teoria di Eva mitocondriale è stata tuttavia messa in discussione. Si è infatti osservato che i mitocondri dello spermatozoo vengono talvolta trasmessi alla progenie. Non solo: alcune prove citogenetico-molecolari suggeriscono che spermatozoi e cellule uovo si scambierebbero pezzi di sequenza di DNA mitocondriale al momento della fecondazione. In questo caso mitocondri potrebbero non rappresentare più un indicatore indiscutibile di matrilinearità. 

Non si hanno ancora certezze nell’uno e nell’altro senso. Di fatto, gli scienziati ancora discordano sulla possibilità che questi processi si verifichino e, qualora avvengano, se lo facciano con una frequenza sufficiente a escludere la possibilità di un’Eva mitocondriale.


A cura di Francesca Genoni

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