Si è tenuta venerdì 27 ottobre 2023 la 22esima conferenza organizzata dalla sottosezione di Avis Borsano che ogni anno si concentra sull’approfondimento di uno o più temi di natura medica: quello di quest’anno è stato l’ictus cerebri, ampiamente approfondito grazie agli interventi del Dr. Isidoro La Spina, Responsabile della U.O. di Neurologia dell’ASST Valle Olona e al Dr. Umberto Rosanna, Chirurgo Vascolare.
Ha aperto la serata Alessandro Barbaglia, responsabile della sottosezione, che ha cominciato dando al pubblico una panoramica generale sull’ictus cerebri, patologia tanto grave quanto diffusa essendo essa la seconda causa di morte a livello globale, preceduta solo dai problemi cardiocircolatori e dai tumori, responsabile del 10/12% dei decessi annuali, mentre è la prima causa di invalidità. Il maggior fattore di rischio è la mancanza di tempestività, tanto che basterebbe riconoscere i primi segnali per poter evitare il peggio, salvando la vita a chi ne è colpito e riducendo al massimo gli eventuali danni fisici: in Italia ci sono ogni anno quasi 200mila casi di ictus e, di questi, ? a un anno ha una disabilità totale. Il fenomeno è in costante crescita, in relazione all’invecchiamento della popolazione.
Ha moderato la conferenza il consigliere Luigi Pinciroli, che ha anche portato i saluti del Dr. Vincenzo Saturni, già presidente di Avis Nazionale, impossibilitato a partecipare alla serata.
ICTUS: il tempo è cervello
Il primo intervento è stato quello del Dr. La Spina che ha chiarito da subito che l’ictus cerebri (anche detto stroke in inglese) non è altro che un disturbo della circolazione cerebrale. Ci sono due modalità con cui ciò può avvenire: un’ischemia o un’emorragia. Si parlerà quindi di ictus ischemico (85% dei casi) quando l’afflusso di sangue ad una certa zona del cervello è interrotto per un embolo o un coagulo, e ictus emorragico, se è causato dalla rottura di un vaso e conseguente fuoriuscita di sangue, in cui il danno è legato sia alla carenza di ossigeno, sia al fatto che il sangue uscendo dal torrente circolatorio aumenta la pressione intracranica creando una situazione estremamente grave. Alla TAC è possibile distinguere il quadro ischemico da quello emorragico, ma poiché il quadro di ictus evolve anche in 24-48h, in un primo momento potrebbe anche risultare negativa.
Per RICONOSCERLO occorre considerare la rapidità di insorgenza, in quanto può manifestarsi anche in maniera molto subdola e con sintomi aspecifici. I pazienti con ictus riferiscono di avere un disturbo al movimento di un braccio, mancanza di sensibilità, difficoltà a parlare, a vedere una parte dello spazio, hanno mal di testa, confusione mentale… sono tutti sintomi che possono essere ugualmente segnale di ictus. La cosa importante, quindi, è pensare subito che possa essere un ictus: trascurare questa fase, ovvero quella dell’inizio dei disturbi, aumenta il rischio di non poter beneficiare delle terapie all’arrivo in ospedale.
Non esiste una sola causa di ictus: esistono i fattori non modificabili, ovvero per i quali non si può fare niente, come l’età. La patologia è direttamente collegata all’invecchiamento (aumenta del 10% per ogni decade di vita oltre i 55 anni), dunque è un rischio intrinseco della persona solo per il fatto di avere una certa età. Bisogna anche considerare il sesso, poiché è più frequente negli uomini, e non ultimi i fattori genetici, anche se alcuni studi dimostrano altro: studiando una coorte di pazienti classificati con rischio genetico basso, medio o alto e con differenti stili di vita, il dato che è emerso è che i pazienti che partivano col rischio più alto, se erano tra coloro che meglio seguivano le indicazioni sugli stili di vita, riducevano il loro rischio di quasi la metà. Ciò significa che la genetica è condizionata dai nostri stili di vita, dunque anche dai fattori cosiddetti modificabili: ipertensione arteriosa che da sola contribuisce per il 50% all’incidenza di malattie cerebrovascolari, elevati valori di glicemia a digiuno e diabete mellito, alterazione dei grassi nel sangue, fumo di sigaretta, consumo di alcool, fibrillazione atriale, stile di vita sedentario, obesità.
Per PREVENIRLO bisogna curare tutti i fattori modificabili appena citati: non fumare, non eccedere con l’alcool, fare attività fisica in modo regolare, tenere sotto controllo la pressione, scegliere un’alimentazione sana, dimagrire in caso di peso eccessivo, sottoporsi a controlli periodici, prendere regolarmente i farmaci prescritti.
Per CURARLO occorre agire con tempestività. Arrivare in ritardo impedisce nella maggior parte dei casi di somministrare le terapie. Per patologia tempo-dipendente si intende proprio questo: infatti, nel momento in cui si realizza la mancanza di flusso sanguigno di un distretto cerebrale, non c’è omogeneità nel tessuto interessato. C’è, cioè, una parte (il core) in cui c’è perdita totale e irreversibile di tessuto, ma tutt’intorno c’è una vasta zona che invece può essere salvata: è la zona di penombra. I primi segni dell’ictus, ad esempio l’emiplegia, sono dovuti a tutta la lesione; quindi, salvare la zona di penombra, dove c’è una carenza relativa di flusso, consentirà di ridurre al minimo i danni.
Col passare delle ore il core tende a crescere, tanto che dopo 6-8 ore non si potrà avere nessun tipo di recupero. Quindi bisogna intervenire subito, perché solo facendo così abbiamo un’elevata probabilità di salvare molto cervello: perciò il tempo è cervello, perché più passa il tempo più perdiamo tessuto che si può salvare.
La presenza della penombra rilevata attraverso gli esami è il requisito fondamentale per poter praticare determinate terapie. Il neurologo può somministrare una terapia endovenosa ovvero l’attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) che è un fibrinolitico e che viene somministrato tenendo conto di alcuni criteri e di controindicazioni assolute e relative. Il neuroradiologo interventista può effettuare per via endovascolare una trombectomia meccanica: accedendo dall’arteria femorale con un catetere segue l’arteria arrivando fin dentro il cervello per sciogliere meccanicamente il coagulo.
Non tutti coloro che subiscono questi trattamenti guariscono: nel 60% dei casi c’è un miglioramento significativo, il 5% va incontro a complicanze come l’emorragia cerebrale, mentre nel 35% dei casi non si ha nessun effetto, oppure c’è un miglioramento transitorio seguito da un peggioramento. Tuttavia, non si intende il 60% della totalità degli ictus, ma solo di quelli che vengono trattati in pronto soccorso, ovvero il 30%: nel restante 70% non si riesce a somministrare alcuna terapia entro le 4 ore e mezza, cioè l’intervallo temporale fondamentale entro il quale intervenire.
La diagnosi e il trattamento della stenosi carotidea come prevenzione dell’ictus cerebrale ischemico
Ha preso quindi la parola il Dr. Rosanna che ha cominciato con una doverosa introduzione all’anatomia dei tronchi sovraortici: esistono infatti due arterie carotidi comuni, una per ogni lato del collo, che sono i due principali vasi arteriosi che portano sangue al cervello. La maggior parte dei vasi cerebrali, infatti, è alimentata dalle carotidi, mentre le due arterie vertebrali danno un flusso adeguato nella regione posteriore del cervello. Ciascuna carotide comune si divide a sua volta in un ramo interno e uno esterno: le carotidi interne portano il sangue ossigenato al cervello, le carotidi esterne portano il sangue ossigenato al viso, al cuoio capelluto e al collo. L’ictus cerebri può essere determinato dalla presenza di placche aterosclerotiche in una o entrambe le carotidi.
Le placche aterosclerotiche a livello delle carotidi possono iniziare già in età infantile, con la presenza di leggerissime strie lipidiche che si formano sulla parete del vaso. Queste strie, con il tempo, vanno incontro a una progressione e danno il cosiddetto ateroma, formando delle concrezioni costituite da lipidi, calcio, piastrine che determinano progressivamente una stenosi ovvero un restringimento del vaso carotideo: è in questa fase che dobbiamo attuare un percorso di prevenzione per controllare la crescita nel tempo di queste placche.
Per stenosi carotidea si intende la riduzione di calibro un segmento dell’arteria carotide e che generalmente si attua a livello della biforcazione delle carotidi: mentre lungo la carotide comune il flusso è lineare, a livello della biforcazione il flusso diventa turbolento perché il sangue incontra improvvisamente un ostacolo rappresentato dalla biforcazione stessa, per cui a questo livello si depositano sostanze, cellule, lipidi e calcio. Se il restringimento diventa particolarmente severo, esso espone il paziente al rischio di ictus: si è calcolato che se la stenosi è uguale o superiore al 70% del lume del vaso, c’è un rischio calcolato statisticamente di avere un ictus nel 5% dei casi. Il rischio aumenta progressivamente con l’età del paziente, tenendo conto anche della familiarità e del sesso. Tra i fattori modificabili rientrano l’attività fisica, il diabete mellito, l’ipercolesterolemia, l’HTA e il fumo. Pertanto, è fondamentale in presenza di questi fattori andare a indagare le carotidi.
Lo studio delle carotidi e delle biforcazioni carotidee può avvenire con l’Ecocolordoppler (ECD), una metodica ecografica non invasiva, indagine di primo livello per la diagnosi della stenosi, ma predittiva anche per il rischio cardiovascolare. L’ECD permette di evidenziare esattamente sia le placche eventualmente presenti nella carotide, sia la loro costituzione: se fibrosa, se fibro-calcifica o se solo calcifica, dato importante da sapere per effettuare un trattamento adeguato.
Maggiore è la stenosi, maggiore è il rischio di avere complicanze.
Il primo ECD andrebbe effettuato, in presenza di fattori di rischio, anche in giovane età, tra i 40 e i 50 anni, sia per uomini che per donne, perché permette di avere una visione precoce del rischio cardiovascolare. Le linee guida del 2022 dicono che lo studio ECD dei TSA come indagine di screening per la ricerca della stenosi carotidea asintomatica può essere indicata:
- Nei soggetti asintomatici per evento cerebrovascolare, ma con alto rischio e con arteriopatia in altri distretti (es. problematiche alle arterie degli arti inferiori, infarto, sindromi coronariche acute);
- Nei soggetti over 65 indipendentemente dai fattori di rischio;
- Nei soggetti con più fattori di rischio.
La patologia stenotica o ostruttiva delle carotidi è responsabile, con eziopatogenesi embolica o emodinamica, del 15-20% degli ictus: può capitare infatti che la placca aterosclerotica vada incontro ad una rottura che determina la liberazione dentro il circolo, quindi nella carotide, di sostanze emboliche che possono occludere le arterie più periferiche ovvero all’interno del cervello. Altre volte la placca può svilupparsi in maniera significativa fino a determinare un restringimento quasi completo della carotide e quindi occludere completamente il vaso.
In soggetti fra i 30 e i 79 anni la prevalenza della lesione ateromasica è del 21%, ma la stenosi di restringimento vera e propria si verifica nell’1,5% dei casi.
La stenosi è sintomatica quando il paziente ha avuto episodio ischemico cerebrale o retinico, ovvero un episodio di ictus nei 3 mesi precedenti oppure a livello di un occhio con cecità improvvisa (amaurosi) che può essere anche di brevissima durata.
Le stenosi carotidee possono essere anche completamente asintomatiche: è risaputo che questa coorte di pazienti è a maggior rischio di ictus cerebri rispetto a quelli che abbiano avuto un episodio ischemico.
I pazienti sintomatici che hanno un restringimento tra il 70 e il 99% possono avere un’incidenza di ictus del 13% nel primo anno e fino al 35% nei 5 anni successivi; i pazienti asintomatici con stenosi tra il 60 e il 90% hanno un’incidenza del 2%.
Se ai controlli viene rilevata una stenosi del 30/40/50% si fa solo terapia medica con controllo della pressione, dei livelli di colesterolo in particolare LDL, glicemia, Hb glicata. In più, si raccomandano la perdita di peso, l’astensione dal fumo e l’assunzione quotidiana di un antiaggregante.
Se si arriva al trattamento chirurgico, esso può essere open o endovascolare: la prevenzione è secondaria quando si interviene per correggere chirurgicamente un restringimento che ha già dato sintomi, oppure primaria se si interviene su un paziente che ha già una stenosi importante senza aver avuto sintomi. Le linee guida negli asintomatici dicono che è raccomandata solo la terapia medica ottimale con stenosi fino al 70%, mentre è posta indicazione chirurgica per una stenosi maggiore. Non tutti i pazienti verranno sottoposti a intervento chirurgico, in quanto il tasso di complicanze intra-, peri- o post-operatorie deve essere inferiore al 3% e l’aspettativa di vita superiore ai 3 anni.
Nei sintomatici, quando il paziente ha una stenosi sintomatica uguale o maggiore al 70% è raccomandato sempre l’intervento, considerando un rischio intra-, peri- e post-operatorio che deve essere inferiore al 6%.
Francesca Genoni